Mentre per la città di Sanremo si aggira gente strana in maschera, manco fosse Carnevale, il festival continua. Seconda serata, si ricomincia. Amadeus affiancato dalla giornalista Francesca Fagnani. Morandi canta Grazie dei fiori e gioca sulle rose maltrattate da Blanco. Toglie però sontuosità al brano della compianta Nilla Pizzi. L’approccio fin troppo leggero di zio Gianni ai pezzi classici della musica italiana finirà per distruggerli. Le canticchia come fosse sotto la doccia. Accidenti, hai un’orchestra a disposizione, usala.
Inizia la giovane promessa Will con una canzone senza infamia e senza lode dal titolo Stupido. Seguono i Modà con Lasciami, quelli che Samuele Bersani citava in Chiamami Napoleone: “Non c’è più niente qui / Qui da musicare / A parte un disco dei Modà”. Bravo il cantante sulle vocali aperte, la sua specialità. Piaceranno al pubblico pigro festivaliero. Arriva sul palco Sethu, direttamente da Sanremo Giovani. Cause Perse è un pezzo di rottura che mette un poco di pepe al festival, visto l’insipido musicale cui siamo costretti ad ascoltare. Arrivano gli ultimi immortali Al Bano, Massimo Ranieri e Gianni Morandi. Le ugole d’oro della musica italiana. Si cimentato nel loro repertorio migliore, quattro canzoni ciascuno, più una cantata insieme, Il nostro concerto di Umberto Bindi. Il pubblico applaude a scena aperta, chiede il bis. Cantano benissimo, tranne l’ottantenne Al Bano che tentenna non poco. Nulla da aggiungere, fanno ancora scuola e in tanti che osano sul quel palco potrebbero imparare da loro. Al Bano prima fa le flessioni (perché?) e poi risponde a Riccardo Blanco: i fiori si amano. Va bene, ma lui nel 2017 li strappò dal mazzo consegnato a Ermal Meta come segno di protesta alla sua eliminazione. Rose Rosse di Ranieri come un accanimento terapeutico, decisamente troppo. Si scherza. Lasciamolo in pace il povero ragazzo. Ha chiesto scusa al teatro Ariston come se quel palco fosse un essere vivente.
Ritornano gli Articolo 31 con Un bel viaggio, storia di un’amicizia ritrovata. Lazza vuol sparire nella sua Cenere. Tra il nuovo che avanza è quello che convince di più, almeno canta e il testo non è affatto banale. Parole dette male di Giorgia, mica tanto. Canta divinamente in una canzone poco sanremese. L’orchestra, fin qui mortificata da brutte canzoni, finalmente applaude. Leggevo critiche al suo brano. Forse non tra le sue migliori canzoni, ma ha classe. Quando canta trasforma il ferro in oro. Modesta nel presentarsi tra i concorrenti, si è messa in gioco. Solo per questo motivo meriterebbe di vincere.
Spezza il clima festaiolo dell’Ariston il discorso della lucana d’adozione e attivista Pegah Moshir Pour. In coppia con Drusilla Foer, denuncia la repressione del regime islamico in Iran. L’attualità entra a gamba tesa nel Festival. A Piazza Colombo Francesco Renga e Nek cantano insieme. C’è la necessità di cooperare insieme per non perdere il treno del successo. Non sempre però i connubi artistici funzionano. I due sembrano andare d’accordo, buon per loro e i fan che li seguiranno in questo nuovo percorso.
Colapesce e Dimartino con Splash non bissano il colpo a sorpresa di due anni fa con Musica leggerissima, un vero peccato. Puntavo tutto su di loro. Il testo è tra i più interessanti, il resto è il già sentito da qualche parte. Alle 22:55 c’è la sensazione di sprecare il proprio tempo e assistere a qualcosa di estremamente noioso. Le canzoni non emozionano. Gli ospiti Black Eyed Peas, o quello che è rimasto dalla band losangelina, fanno rimpiangere la Nazionale cantanti Morandi/Ranieri/Al Bano. Con un chachet di 800.000 € (fonte: Corriere dello Sport) non confermato dalla Rai, hanno offerto uno spettacolo mediocre. Al grido di “Clap your hands”, hanno fatto ballare gli orchestrali. Un’esplosione di energia mai vista all’Ariston, secondo Amadeus. Vabbè, brividi.
Shari con Egoista non pervenuta. Brano veramente brutto, niente da aggiungere. Il monologo di Francesca Fagnani da voce ai ragazzi detenuti nel carcere minorile di Nisida. Fedez spiazza con un testo al vetriolo di Freestyle. Non le manda a dire. Ha coraggio da vendere. In una kermesse noiosa, il suo è un pugno in faccia. E per evitare ritorsioni, alla fine di una esibizione per niente scontata, si assume tutte le responsabilità togliendo le castagne dal fuoco alla Rai. Madame con Il bene nel male scalerà la classifica di vendite, tra le canzoni più convincenti del festival. Anch’essa applaudita dall’orchestra, un segnale importante. Levante si fa fatica a riconoscerla nel suo nuovo look. Vuole prendere in mano il suo destino. La canzone Vivo ricorda il synth pop degli anni Ottanta dei Visage di Fade to grade e degli Human League di The Lebanon e di Human. Nel testo carnale di Levante c’è anche lo spirito: “Credo nel Dio che prego / Padre nostro, Padre posso andare in cielo? Ho il destino stanco / Forse ho corso tanto.” Il Tango di Tananai dice che Dio ci pesta come un ballo a due. Che vuol dire? Il giovane cantante ricorda Raf, un complimento.
Dalle rose distrutte sul palco, passando per le rose rosse di Ranieri, si arriva al tanto discusso Rosa Chemical. Della canzone Made in Italy colpisce il ritornello “badabadabidababa badibubum” (comunque non tra le peggiori canzoni fin qui ascoltate). Strizza l’occhio al neomelodico napoletano tanto popolare tra i ragazzi. Riguardo il messaggio sulla diversità, Rosa Chemical arriva in ritardo. Potrebbe colpire chi non conosce il glam rock, genere musicale che esaltava l’androginia come normalità e non anomalia. Citando David Bowie, il Rosa Chemical fa l’amore con il suo ego. Veste come Marc Almond dei Soft Cell, lo imita nel look e anche nella scrittura musicale riguardo il travestitismo e la promiscuità. “Sono un bravo cristiano / Ma non sono cristiano.” canta Rosa Chemical. Tutta qui la sua provocazione? In I’m not a friend of God i Soft Cell sono più sfacciati: “Non sono un amico di Dio / So come finisce la Bibbia / E non sarò lì a pentirmi / Ecco perché non siamo amici / Non gli sono mai piaciuto davvero / Non c’era mai quando avevo bisogno di Lui / E fa cose solo per farmi dispetto.”
LDA con Se poi domani lo scorderemo spenta la tv, spiace davvero. Ritornano sul palco di Sanremo Paola & Chiara con Furore. Colpisce il look: sembrano rievocare i Rocketz dipinti d’argento. Correva l’anno 1980, furono spaziali con Galactica. Le sorelle più famose d’Italia, secondo Morandi, risultano piuttosto terrene. Finisce così la gara. Sono le 00:45 e siamo ancora tutti sani e salvi.
Arriva il momento di Angelo Duro. Amadeus avvisa il pubblico dell’abrasività del monologo, che paura. Non fa ridere, non fa pensare, non fa commuovere, non fa arrabbiare. Incommentabile. Al termine dell’esibizione, Amadeus dice: “Potrebbe essere l’inizio della sua carriera e la fine della mia.” Un momento terribile come le giacche del presentatore. Arriva la classifica generale, anzi le due hit parade. L’altra è della seconda serata, sempre stabilita dai giornalisti in sala stampa. All’ultimo posto Sethu, nelle prime posizioni ci sono Giorgia, Lazza, Tananai e Madame. Al primo posto Colapesce e Dimartino.
Nella Top Five della classifica generale ci sono Elodie, Tananai, Madame, Colapesce e Dimartino. Svetta Marco Mengoni. Con l’ingresso della demoscopica e il televoto, tutto potrebbe cambiare. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Potremmo applicare il principio gattopardesco, ma perché scomodare cotanta bellezza per un festival deludente riguardo le canzoni? Si ha l’impressione di avere in mano delle scatole belle fuori e vuote dentro, di stare al ballo mascherato delle celebrità, tanto per citare Fabrizio De André. Lì dove la canzone è debole, prevale il personaggio che diventa una caricatura. Non fa notizia neanche più l’identità di genere. Abbiamo visto il non-binario fin troppo rappresentato, mentre vogliono farci dimenticare la bellezza del maschile e del femminile. Stiamo incollati alla tv a fissare il vuoto fino alle due di notte. Come disse il Dalai Lama, questa è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra per occultare il vuoto della stanza. Il festival ne è l’esempio, dà nell’occhio e si fa notare. Per poi deluderci.
Rubrica della diocesi di Ventimiglia – Sanremo