Erano anni che non guardavo Sanremo. Il festival si fa in televisione e quella cosa non la guardo più. Chi dirige la tv in Italia propone una cultura assai lontana dalla mia che è cattolica, apostolica e romana. Lo stesso frequento i salotti televisivi per rilasciare interviste. Uso la tv per dire il Bene a modo mio, senza ammiccamenti o compromessi. Chi guida il mondo propone valori contrari alla mia fede, ma non smetto di vivere e di cercare la felicità già in terra. Il festival legittima ciò che non lo è per tradizione: la trasgressione sessuale. Ciò non ha impedito di seguire la gara musicale e di ascoltare le canzoni. Ho combattuto la buona battaglia con Anna Oxa e gli Articolo 31, conservato la fede dopo aver visto Levante e Mr. Rain. Ho cambiato l’orologio biologico insieme a Fiorello perché Sanremo è una gara di resistenza, uno show non adatto a un pubblico di lavoratori.
Gli organizzatori sono ossessionati dall’identità di genere, lo sanno anche le pietre. Migliaia di canzoni cantano di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. Non ci scandalizziamo più davanti a certe pubblicità, a film, libri, trasmissioni radiofoniche e spettacoli televisivi impregnati d’ideologia LGBT. La intercettiamo solo a Sanremo, alzando dei muri o applaudendo. La diversità fa soffrire chi prova a viverla con dignità. I timorati di Dio e i non credenti, nel raccontarsi, cercano la discrezione anziché le luci della ribalta. Il festival invece ci prende gusto, spiattella la diversità in modo gaio e sfacciato. Quel blaterale sulla libertà sessuale l’ho già sentito nei dischi del Glam Rock inglese degli anni Settanta e nella disco music statunitense degli anni Ottanta.
Tra qualche giorno ci scorderemo di Rosa Chemical che ha gridato sul palco sanremese “Viva il sesso!” Come dargli torto? Il sesso è un dono, tra i più belli. Nella serata finale struscia e bacia Fedez, trascinato sul palco di peso. Fiorello più tardi si ripeterà nella battuta: “Domani prima pagina sull’Avvenire”. A Sanremo quello che si è fatto si rifà. Lo scorso anno citò allo stesso modo il giornale per cui scrivo, l’Osservatore Romano. Fiorello chiese ad Amadeus che voto avrebbe dato l’Osservatore alla performance di Achille Lauro che usò simboli religiosi della tradizione cattolica. Il giornale della Santa Sede diede una breve risposta, adeguata e ironica. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, è scritto nel libro biblico del Qoelet. C’è forse qualcosa nella kermesse canora di cui si possa dire: Ecco, questa è una novità? Il festival viene raggiunto dall’ovvietà delle cose umane di cui non si conserverà memoria, anche quando prova a rovesciare l’ordine naturale del mondo.
La sera del venerdì c’è stato il monologo di Chiara Francini, forse quello più duro e meglio raccontato. La sua mancata maternità (finora) ha colpito in tanti. Non un testo favorevole all’aborto. Tra i tanti passaggi, ne evidenzio uno: “Essere figlio di una madre come me ti causerà solo dei problemi. Se sarai maschio io so e, quasi spero, che sarai gay e t’amerò così tanto. Però forse preferirei non lo fossi, perché sarà più difficile e io vorrei che per te fosse facile.” Perché non un figlio disabile? Milioni di famiglie lottano con malattie invalidanti dei loro figli. Un’Italia eroica ed anonima di cui il festival non parla più. La dittatura delle minoranze. Sospendo il giudizio su Chiara Francini. Quel discorso rimane fra sé e le tante che si sono identificate nel soliloquio. Non condivido alcune cose dette dall’attrice, ma taccio e rispetto il suo pensiero. Sono un uomo e un prete, cosa posso capire del dolore di una donna?
Scrivo in modo determinato e gentile. Provo a restituire al Festival il ruolo che gli spetta e cioè di proporre nuove canzoni, fuori da ogni strumentalizzazione mediatica dei corpi e del sesso che poco hanno a che fare con la musica italiana. Che ci diano l’opportunità d’assistere a uno spettacolo di luci e di suoni, senza rivoluzioni etiche di cui non sentiamo il bisogno. Proviamo a tirare fuori il buono che abbiamo sentito a Sanremo. Senza esagerare perché questa edizione ha poco di bello da consegnare alla storia. La celebrazione di Gino Paoli e Ornella Vanoni è al limite del sopportabile. Il peso degli anni si fa sentire su entrambi che sbiascicano parole anziché cantare dei versi e questo dà ai nervi dell’ascoltatore.
All’Ariston ci sono i Depeche Mode. Il nuovo singolo Gosths again cantato dal vero in anteprima mondiale è una riflessione lieta sulla morte. Tre settimane prima di entrare in studio per registrare l’album in uscita a marzo 2023, Memento Mori, è scomparso Andy Fletcher, membro storico della band inglese. Nulla di previsto, ma il testo è sovrapponibile al passaggio nell’aldilà di Andy. La band s’interroga sulla finitudine e sente il vuoto incolmabile lasciato da un amico fraterno.
Sentimenti sprecati, significati infranti
Il tempo è fugace, guarda cosa porta
Tutti dicono addio, la fede dorme
Amanti alla fine, sussurrate che saremo di nuovo spiriti.
L’altro brano eseguito è Personal Jesus, tradotto: Un Gesù personale. La genesi del brano è scritta nella biografia ufficiale, un tomo di seicento pagine dal titolo Stripped – I Depeche Mode messi a nudo di Jonathan Miller (edito in Italia da Castelvecchi.) Fu lo stesso Andy Fletcher a parlarne: «Il testo è molto ambiguo, e quindi poteva essere difficile da capire e invece è stato tutto il contrario. Molta gente pensa che sia un inno a Cristo, cosa assolutamente non premeditata. Se pubblichi una canzone che contiene la parola Gesù, qualche guaio te lo devi aspettare, l’abbiamo voluta pubblicare perché credevamo fosse davvero una bella canzone». Nel racconto biografico viene chiarito chi è quel Gesù. La canzone fu scritta in seguito alla lettura di Elvis & Me, l’autobiografia di Priscilla Beaulieu Presley sulla storia con Elvis, il re del rock’n’roll. Personal Jesus parla di una persona diventata per qualcuno una sorta di Gesù da venerare perché capace di dare amore e protezione.
La lettera di Zelensky e l’esibizione degli ucraini Antytila chiudono il festival. In attesa della premiazione del vincitore, vengono distribuiti i premi minori: a Colapesce e Dimartino il premio della critica e della sala stampa. Premio per il miglior testo ai Come_Cose, gli orchestrali premiamo Marco Mengoni. La classifica finale dei primi cinque: Tananai, Ultimo, Mr. Rain e Lazza. Vince la 73a edizione del festival Marco Mengoni. Ma che sorpresa. Cinque uomini trionfano al festival delle diversità. Vado a dormire, domani celebro messa alle 8 del mattino e mi aspettano lunghe ore di viaggio in treno. Quattro canzoni le riascolterò: Levante, Come_Cose, Tananai e Lazza.
Grazie al vescovo mons. Antonio Suetta della diocesi Ventimiglia – Sanremo che mi ha chiamato e accolto nel palazzo vescovile, fidandosi del mio giudizio critico sul festival sanremese. Le cose belle di Sanremo sono il mare, le chiese e i suoi cittadini, accoglienti e pazienti con i visitatori. Al prossimo Festival della canzone italiana. Ora posso spegnere la tv. Finalmente.