A Sanremo non ci sono semafori per regolarizzare il traffico dei pedoni. Puoi attraversare tranquillo le strisce pedonali come i Beatles ad Abbey Road in una Londra mezza vuota. Gli automobilisti con pazienza aspettano il passaggio biblico della gente in giro per le strade alla ricerca di un cantante da fotografare. Gli abitanti sono felici di questa confusione, mostrano con orgoglio la loro città agli ospiti, è lo stesso caos calmo visto a Catania qualche settimana fa alla vigilia della festa della patrona Sant’Agata. L’organizzazione del Comune per regolare il traffico e la sicurezza dei cittadini è perfetta, così come la Rai che non lascia nulla al caso nell’organizzazione dell’evento.
Chiedo, curioso, a qualche sanremese del Festival. Ne sono contenti, qualcuno rimpiange l’eleganza e la magia delle edizioni negli anni sessanta, altri sono euforici perché è una festa popolare che porta gioia. Una signora mi accompagna a far visita a un ristorante chic appena aperto, altri mi consigliano dove mangiare avvisandomi che i prezzi qui sono un tantino alti. Forse non conoscono Milano e Roma. Le suore si prendono cura di me cucinando non solo il brodo vegetale: mangio (bene) quello che passa il convento. Bello vedere qualche sorella uscire dalla cucina e portare il pranzo a famiglie povere. Divertente ascoltare il lamento di una commessa di un supermercato che non sopporta la musica in filodiffusione nel negozio. Commovente ascoltare per strada La sera dei miracoli di Lucio Dalla, mentre tre ragazzi scannerizzano il codice QR di Marco Mengoni disegnato sui marciapiedi. Alcune fan urlanti mostrano uno striscione dei Modà sotto un albergo. La propaganda murale è segnata dall’affissione di manifesti che pubblicizzano i cantanti del festival, così come accade durante le campagne elettorali. Vincerà il migliore?
Riaccendo la tv dopo dieci anni di digiuno dal mezzo televisivo, non guardo più quella scatola per scelta. Standing ovation a Gianni Morandi sulla fiducia e qualche secondo di silenzio per le vittime del terremoto in Turchia e Siria. Poi l’entrata in teatro di un sorridente Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, segue il canto corale dell’inno nazionale. C’è Roberto Benigni. Dopo dodici anni dalla spiegazione dell’Inno di Mameli al festival, omaggia la Costituzione italiana che compie settantacinque anni. Benigni è Benigni, un attore. Fa la macchietta e poi l’esegeta. Esalta il valore della musica popolare citando Fellini e Miguel de Cervantes. Poi, da navigato maestro di cerimonie, si trascende ricordando il papà del Presidente tra i padri costituenti, l’articolo 21 che garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero e quella pagina bianca della Costituzione che ogni cittadino deve scrivere con la sua condotta di vita. Una esibizione da manuale… eppure prevedibile.
Alle 21:22 inizia la gara con Anna Oxa. Sali è un brano scritto da Francesco Bianconi dei Baustelle, ad oggi il migliore autore di canzoni in Italia. Anna ci prova a cantare la ricerca della felicità in un mondo secolarizzato, tema cui ci ha abituati Bianconi. Il giovane arrabbiato Gianmaria con Mostro sembra un alunno che recita una poesia a scuola. Dopo un inizio traballante buca lo schermo, però la canzone conta meno della sua faccia. Il contrasto con la Oxa è evidentissimo. Appare poi Chiara Ferragni, una scritta sul vestito “Pensati libera” e le prove fatte per mesi sulle scale del condominio per essere pronta al debutto. Alla terza esibizione, quella di Mr. Rain, il bel canto ancora latita. Il coro dei bambini in Supereroi genera empatia ma è stucchevole, ricorda Povia dei “I bambini fanno ooh”. Utile per l’audience. Ritornano Mahmood e Blanco, i vincitori del festival dell’anno scorso, forse per rinverdire la memoria degli italiani che mai ricordano chi ha vinto l’ultima edizione del festival. Con Brividi stavolta ci risparmiano le terribili biciclette diamantate con cui salirono sul palco. Alla quinta canzone, Due vite di Marco Mengoni, si ritrova il bel canto che fu un tempo di Al Bano e Claudio Villa. Elena Sofia Ricci presenta la nuova fiction televisiva “Fiori sopra l’inferno”. La scenetta tra i conduttori e la brava attrice funziona poco. Tutte le volte che si presenta un giovane big (davvero sono famosi?), i presentatori evidenziano il numero di streaming su Spotify. Un rafforzativo che dovrebbe giustificare la presenza in scena di Ariete che rasenta la stonatura, mettendosi in un Mare di Guai.
Morandi dice delle canzoni belle fin lì ascoltate, sui gusti non si può discutere. Gioca invece sulle 542 canzoni brutte cantate nel corso della sua carriera. Saper ridere di sé stessi è una virtù rara nei cantanti italiani, tanto di cappello al Gianni nazionale. Ultimo scrive testo e musica di Alba. Di default inviso alla critica musicale, non fa nulla per togliersi dall’impiccio. Lo danno per vincitore, ma gli altri concorrenti non avranno nulla da temere.
Poi il cortocircuito musicale (mancato) con Piero Pelù che si esibisce in piazza Colombo con la sua sanremese Gigante. Se avesse cantato un pezzo qualsiasi dei Litfiba avrebbe omaggiato una band, la sua band, tra le più importanti della scena rock italiana e mostrarsi alternativo al festival. Occasione sprecata. Il duo fuori e sopra il palco Coma_Cose con L’addio hanno il suono migliore della serata, il testo più autentico, la canzone migliore finora ascoltata. California voce splendida, Fausto Lama sotto tono, forse troppo.
La celebrazione dei Pooh stride con quanto successe nell’edizione del festival 2018 dove tre componenti della band storica si presentarono ognuno per sé e la piccola Katy per tutti. Furono quasi dimenticati. Red Canzian con Ognuno ha il racconto si classificò quindicesimo, andò peggio per Roby Facchinetti e Riccardo Fogli che con Il segreto del tempo arrivarono quartùltimi. I vincitori dell’edizione 1990 con Uomini Soli sembrano stanchi e sfaldati. Nel 2016 annunciarono il ritiro dalle scene, ora ritornano per un unico concerto a San Siro il 6 luglio prossimo. Toccante il ricordo di Stefano D’Orazio, sostituito alla batteria dal figlio di Red Canzian, Phil, già musicista con Enrico Ruggeri, Pino Daniele e Francesco Guccini.
Elodie in versione Rihanna ha il brano che più funzionerà in rete e in radio, al limite vocale con Due e un testo pressoché evanescente, nonostante la citazione di Se Telefonando di Mina: “E se ci pensi il nostro amore / È nato appena / Ma è già finito male.” Il monologo di Chiara Ferragni è autoreferenziale, non se ne sentiva il bisogno. Legittimarsi, scrivendo una lettera e commuoversi leggendola in diretta nazionale davanti a milioni di spettatori. Una stratega della comunicazione.
Poi arriva Salmo, ospite e in collegamento da una nave di crociera grande quanto il territorio della mia parrocchia. Canta due pezzi inquieti come Russell Crowe e 90min in cui manifesta un presunto ateismo. In realtà nasconde una fede curiosa e desiderosa “destata dal presentimento del vero”. L’esibizione più sanguigna di una serata piuttosto soporifera chiusa con un tuffo in piscina. Salmo, il peggio vestito della storia del festival. Leo Gassmann con Terzo Cuore pare divertirsi come pochi. Almeno si gode il momento.
Blanco presenta, come ospite, il suo nuovo brano post punk L’isola delle rose. Smette subito di cantare per un problema audio, prendendo a calci le rose posizionate apposta sul palco per essere distrutte. Fischiato dal pubblico, mostra i suoi limiti. Quelli bravi prendono in mano la situazione anche nei momenti peggiori. Lui no, lui il vincitore del festival. Vabbè. Dalle stelle alle stalle in pochi minuti. Amadeus propone di ripetere la canzone, la platea lo contesta. Il momento più imbarazzante e divertente della serata. Finalmente succede qualcosa. Più tardi Amadeus dirà che non potrà più esibirsi. Il pubblico applaude. A volte basta un attimo per rovinarsi una carriera.
Antonella Veltri, presidente dell’associazione D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) sul palco insieme a Chiara Ferragni e tre rappresentanti di una rete nazionale antiviolenza gestita da organizzazioni di donne. Qui la Ferragni è lodevole perché ha donato il suo compenso all’associazione. Arriva dritto il messaggio agli odiatori e ai misogini con il vestito indossato dalla Ferragni. Si leggono scritte offensive a lei rivolte sui social. Un poco di leggerezza con i Cugini di Campagna che segnano il gol vincente nella partita sanremese con Lettera 22. Arriveranno in alto in classifica.
Ritorna Gianluca Grignani con una canzone dedicata al padre, Quando ti manca il fiato. Non un grande ritorno. Nonostante il testo importante, la canzone sembra non reggere il pathos di chi l’ha scritta. Olly (da Sanremo Giovani) canta Polvere, manipolando la voce con l’autotune. Per favore, basta! La base ricorda Viva la Vida dei Coldplay (che hanno copiato altri). Gli esordienti Colla Zio con Non Mi Va, i più colorati ma non graffiano. Mara Sattei con Duemila minuti chiude la gara con una canzone forte, una sorpresa.
Lucio Battisti che avrebbe compiuto 80 anni nel 2023 – il 5 marzo – meriterebbe un tributo migliore. Gianni Morandi restituisce al pubblico il patrimonio musicale di Battisti e Mogol, ma buttarla lì come fosse una sagra paesana magari no. I coristi, bravissimi a sostenere gli artisti sul palco, salvano il capolavoro Il mio canto libero dall’effetto karaoke. La sala stampa punisce Anna Oxa relegandola all’ultimo posto della classifica provvisoria. Non lo meritava. Marco Mengoni al primo posto. Le sentenze si rispettano.
All’una e trentatré chiude la prima puntata di Sanremo. Quasi tutte canzoni livellate verso il basso, scollate dalla realtà, dei palliativi che spengono il dolore del vivere e il desiderio, incapaci di farci intendere quello che ci accade. Vero che la musica è intrattenimento e leggerezza. Un aiuto servirebbe, anche piccolo di tre minuti (il tempo di una canzone) per decodificare un mondo che non capiamo più. Sarà la musica che gira intorno, quella che non ha futuro, a dirci chi siamo. Viva Sanremo.
Rubrica per la diocesi di Ventimiglia – Sanremo