«Buon ascolto!». È un augurio singolare quello che Massimo Granieri e Luca Miele rivolgono ai lettori. Un invito ad ascoltare oltre che a leggere: ad ascoltare o a riascoltare le canzoni di cui scrivono. Perché quello che hanno confezionato è un libro che parla di musica. E ancora più singolare, almeno per alcuni, potrebbe apparire il titolo del volume: Il vangelo secondo il rock (Torino, Claudiana, 2018, pagine 170, euro, 14,90). Del resto ancora oggi c’è chi sostiene, senza fare distinzioni, che il rock è la musica del diavolo, retaggio, questo, di una critica schierata, che ha fatto il suo tempo, ma che però ha condannato per decenni alla marginalità un tratto rilevante della musica rock, americana in particolare: l’influenza della Bibbia nella produzione di molti importanti autori.
«La Bibbia deborda nei versi di Bob Dylan, costeggia l’opera di Woody Guthrie, preme nella “teologia del Padre” di Bruce Springsteen, sostiene la poetica di Johnny Cash, urla nella furia di Patti Smith, rabbrividisce nella sofferenza di Jeff Buckley. La Bibbia insomma — sottolineano gli autori — ri-suona costantemente, tenacemente, intimamente nella canzone rock. Grido, invocazione, lode, contesa, affrontamento, giudizio, interrogazione, preghiera, bestemmia sono le forme che, di volta in volta, questo ri-suonare assume».
E se è vero, come scrive nell’introduzione al volume padre Antonio Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», che «il rock ha dato voce a molte esistenze rotte dalla miseria, dalla violenza, innalzandole con poesia e delicatezza», preferendo «l’amore al potere, la pace alla guerra il dialogo al monologo», è altrettanto vero che spesso lo ha fatto provando a levare lo sguardo verso l’alto. E quando ciò è avvenuto, quella musica ha toccato l’anima. Si può aderire al richiamo al trascendente o lo si può rifiutare, si può cedere all’abbraccio della fede o declinarne la negazione, ma non si può negare che la Scrittura è lì, in quei versi cantati, a testimoniare una spiritualità che, pur con diverse sfumature e accenti, pone quantomeno interrogativi.
Spesso si tratta di una ferita, una frattura, come la definiscono gli autori, tra la Parola e il suo riecheggiare nella musica popolare. Ma è proprio ciò a rendere «fertile, vertiginoso, a tratti provocatorio, questo ri-suonare». Massimo Granieri, sacerdote, e Luca Miele, giornalista di «Avvenire», già autore de Il vangelo secondo Bruce Springsteen per la stessa collana, provano a intercettare gli echi di queste molteplici influenze. Lo fanno soprattutto testimoniando una grande passione per la musica, e in maniera originale, non seguendo alcun percorso, ma inseguendo echi e suggestioni. Raccontando storie, a volte spiazzanti. A partire dalla prima, che è una rivelazione, per certi versi sconcertante, della nascita di una vocazione al sacerdozio.
«In principio era Patti» perché, ricorda padre Massimo Granieri, ad accendere la luce furono le parole che la cantautrice scrisse sulla copertina interna dell’album Radio Ethiopia: Fight the Good Fight (combatti la buona battaglia), esplicita citazione paolina. «Era il 1989 — scrive Granieri — quando mi trovai tra le mani quel disco per la prima volta, avevo diciannove anni. Fu il primo episodio tangibile della rivelazione di Dio nella mia vita e della sua volontà di coinvolgermi nello sforzo di accompagnare l’essere umano in qualsiasi situazione si trovi o si vada a cacciare. Difficile a credersi, è stato il punk a incrociare i miei passi con quelli del Signore».
Il racconto è denso, disordinato, a volte al limite del blasfemo, verrebbe da dire. «Patti Smith apparve in un autogrill come la Vergine Maria ai pastorelli di Fatima. Pronunciò in Ask the Angels parole che avrei voluto sentirmi dire e che nessuno profetava: muoviti».
E da lì in poi la rivelazione fu continua. Colui che qualche anno dopo sarebbe diventato un religioso passionista, nella canzoni della cantautrice, tra Salmi, brani evangelici e citazioni di san Paolo, scopre continui richiami alla Bibbia. «Quando entrai in religione — scrive ancora Granieri — il superiore generale chiese il nome del mio Giovanni Battista. Voleva conoscere il sacerdote che facilitò l’incontro con il Signore e guidato il discernimento vocazionale. Non avendo nessun padre spirituale se non il mio vecchio parroco risposi: “Patti Smith”».
Oggi il sacerdote non ha dubbi: «La discografia di Patti Smith è una mappatura del cammino spirituale dei cosiddetti lontani». Ma non è l’unico caso, come si scopre andando avanti nella lettura del libro. Che subito dopo propone la “semantica religiosa” dei testi di Bruce Springsteen. Il denso capitolo dedicato a The Boss, come lo chiamano i fan, pone in particolare l’accento sulla già citata teologia del Padre riscontrabile nei versi del rocker, anch’essi pieni di vita vissuta perlopiù ai margini di quel sogno americano, desiderato ma irraggiungibile. «Tra padre terreno e padre celeste si apre, nelle canzoni di Springsteen, uno scambio, un transito, un passaggio, una trasmigrazione: il primo si dilata fino ad assumere i contorni dell’altro. Padre terreno e Padre celeste diventano, a tratti, indistinguibili».
Più precisamente il cantautore si concentra su cosa trasmette un padre al figlio, in un rapporto che oscilla tra «rivolta e fedeltà, emulazione e desiderio di affrancamento, urgenza di essere riconosciuti e consapevolezza dell’ineluttabilità della separazione». Nei primi dischi i padri sono figure sfuggenti; prevale l’assenza. Poi si tentano riconciliazioni impossibili, come risulta evidente nel brano My Father’s House, dove Springsteen riscrive la parabola del figliol prodigo con un esito rovesciato: la casa in cui il figlio torna è vuota. Poi di nuovo si sperimenta l’inesistenza del genitore, in un altalenarsi di sensazioni contrastanti, fino a quando non si confronta con la paternità: la nascita di un figlio diventa «la prova vivente dell’esistenza di Dio» in Living Proof.
L’ultimo passaggio è il racconto di un mondo popolato di padri (adulti) che spingono la loro vita fino all’estremo sacrificio. Come il pompiere protagonista di The Rising, che entra nelle Torri Gemelle colpite a morte, anche se mai nominate, rispondendo alla «croce della sua chiamata». Ed è in quel sacrificio che si compie «la riabilitazione del padre, lo svelamento del suo volto autentico. Il padre si dona. Il suo amore è un donarsi incondizionato».
Il cammino proposto dagli autori prosegue con Janis Joplin e il suo gospel delle donne perdenti, nel quale costante è il riferimento a Dio. Dio chiamato in causa per realizzare un sogno, un’utopia: sovvertire la scala gerarchica sociale, per giungere alla parità tra padroni e servi, tra bianchi e neri, tra uomini e donne. E se ciò non si realizza, per Joplin — che cantava e pregava per la liberazione della donna dalla schiavitù degli uomini — quel Dio diventa comunque l’unico rifugio, colui che nell’ora più buia «protegge da quel male che prende forma nelle perversioni dei suoi figli maschi».
Poi è la volta di Tom Waits, con la sua inconfondibile voce roca, a tratti persino disturbante, il cui timbro unico è però capace di esprimere le emozioni più profonde. «È il cuore nero dell’America quello che risuona nella voce di Waits, la stessa America che si è attribuita un “destino manifesto”, si è ammantata della veste della “Nuova Gerusalemme”, che si è eretta come “la città della Collina” che si è foderata del mito e, allo stesso tempo, ha fondato se stessa sulla sparizione omicida delle culture native e sull’umiliazione dei neri».
Quello che presenta il cantautore nei suoi testi è dunque un campionario di perdenti, di uomini persi, sbandati, tra i quali arruola nientemeno che Dio. Perché Dio nelle canzoni di Waits non vive in cieli lontani, non è onnipotente. Waits «lo sporca, lo trascina in basso, lo umanizza». Quello cantato da Waits è un mondo ora orfano di Dio, ora il suo giocattolo. Il cantautore convoca questo Dio persino davanti a un tribunale, vertice di una sorta di teologia “capovolta”, come la definiscono gli autori, che finisce per interrogarsi sulla fragilità di Dio, un Dio che non risponde ai lamenti del suo popolo sofferente.
Anche Woody Guthrie pone Gesù nella sua galleria di banditi, fuggiaschi, girovaghi. Ma quello composto dal cantautore è una sorta di “vangelo sociale” che «se non fu sorretto mai dall’adesione a una istituzione religiosa, si incarnò sempre nel verbo della giustizia». Il mondo cantato da Guthrie, «nonostante le ingiustizie che lo lacerano, non è disertato da Dio».
Jonnhy Cash è invece presentato nell’“ostensione” del suo corpo malato, invecchiato e segnato da una vita di eccessi, mostrato in un video girato pochi giorni prima della morte. Una vita sempre in bilico tra dannazione e salvezza, tra bestemmia e preghiera. «Una vitalità vulcanica e vulnerata — quella di Cash — che si tradusse sempre in musica, e che roteò attorno a un punto fisso, a un’ossessione: la Bibbia».
La stessa di Bob Dylan. Scrivono Granieri e Miele: «Lo specchio che oggi il monumento Dylan ci restituisce è quello di una religiosità americana. Una religiosità totalmente incentrata sulla Bibbia, il grande canone americano: una religiosità quieta, mobile, non immune dalle ombre, nella quale il confine tra sacro e profano è labile, il travaso tra voce e corpo, tra esperienza singola e vita comunitaria è continuo. Una religiosità che, in qualche modo, si è aperta al “mercato” delle fedi, ospitando la concorrenza dei credi e delle istituzioni».
Tra i personaggi proposti c’è poi Nick Cave, con il suo tormentato percorso di ricerca di Dio, passato anche attraverso la perdita di un figlio, e sfociato in una sorta di “teologia torturata” dal dolore. Meno scontate, invece, altre presenze. Come quella di Robert Johnson, prodigioso chitarrista nero, un bluesman che canta di violenza e oppressione, perseguitato da un leggendario patto col diavolo, qui decisamente smentito. O come quella di Jeff Buckley, figlio d’arte, morto trentunenne, il tempo di consegnare alla musica un unico, straordinario disco, noto soprattutto per la sua personale versione di Hallelujah di Leonard Cohen (un altro cantautore che ha letteralmente “saccheggiato” le Scritture). Un bello e dannato, Buckley, intento a combattere i suoi demoni. Oppure, ancora, quella di Dave Matthews, con la sua “resistenza” alla rivelazione, pur nella continua ricerca di Dio. O come quella, forse la più sorprendente, di John Lennon, con le sue note disavventure, quando azzardò uno spericolato quanto ingenuo paragone tra la popolarità di Gesù e quella dei Beatles.
Il vangelo secondo il rock si presenta dunque come una piccola ma interessante antologia, per quanto parziale, di versi in musica in cui trovare non solo rabbia, protesta, frustrazione, fragilità, dolore, disillusione, ma anche squarci, a volte labili altre potenti, di rivincita, di rinascita, persino di conversione. Un’apertura a una speranza che sa anche dischiudersi al divino.
di Gaetano Vallini
L’Osservatore Romano del 4 gennaio 2019
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