Il senso religioso nei brani dei Fast Animals and Slow Kids.
Tempo fa, in radio durante la trasmissione al mercoledì, scelsi una canzone, Cosa ci direbbe, dei Fast Animals and Slow Kids per parlare del delirio d’onnipotenza che dilaga ovunque. I Fask così cantano: «Mendicanti di fronte alla porta di Dio/ Nascondiamo la chiave pensando: Dio sono io». Capita di sentire quasi per caso e dal vivo la band di Perugia. Bisogna accompagnare al concerto la figlia giovanissima di un amico. Mi spinge la curiosità di vedere una loro esibizione, sono uno dei pochi gruppi in Italia che suonano il rock’n’roll. I raduni rock si svolgono in riserve indiane (tranne rare eccezioni), ai margini di tour di gente che suona altri generi musicali. Compriamo i biglietti e via dritti in un luogo molto bello, il castello normanno-svevo, una fortificazione medievale nel comune di Cosenza.
Circa trecento persone presenti, quasi tutti studenti universitari che non si rassegnano all’immondizia musicale di questo tempo, con birre in mano e piuttosto tranquilli nell’attendere la band esibirsi. La band inizia a suonare e il pubblico pagante subito si accende, cantando a memoria ogni singola canzone, dalla prima all’ultima. Saltano, si abbracciano, battono le mani a tempo e si commuovono. Il frontman non si risparmia, si dona al pubblico, dialoga, ringrazia tutto e tutti. Un gruppo elettrico e ruvido, veloce nelle esecuzioni, gentile. Rimango di sasso di fronte la loro gentilezza. Raro che dei rocker mostrino tatto verso il pubblico. Ho visto, negli anni, artisti sputare sulla folla, lanciare bottiglie di vetro e insultare chi frequentava i loro concerti.
Al di là delle cortesie per gli ospiti, sono attratto da alcune canzoni nervose che riguardano la religione, brani che non conoscevo affatto. Finito lo spettacolo, acquisto due vinili della band alla bancarella del merchandising. Preferisco gli artisti che osano confrontarsi con Dio e i Fask rientrano in questa categoria.
Meritano attenzione fosse solo per quello che cantano dal vivo in Fratello mio: «Fratello mio non piangere/ Io l’ho già visto quanto è buio il mare/ Che se ci cadi non ti puoi salvare/ Io la conosco quella sensazione/ Io ti conosco so che puoi reagire/ E tieni con te gli istanti più neri/ Fissali in testa così ci convivi/ Non resterà la traccia sul viso/ Ti guarderai e farai un sorriso/ Tu, io ed io / In cerca di noi». Colpisce Lago ad alta quota, dei versi arrivano dritti come un pugno in faccia: «Come chiese, rocce vacanti di preti/ I santi, che pregano in coro per allontanare fantasmi/ Non può sopportarli più». Mentre cantano, aziono il radar per cercare altre tracce di questa tensione genuina e coraggiosa. L’interesse verso il sacro nella musica italiana è quasi del tutto svanito. Non c’è adesione al Mistero nelle loro canzoni, piuttosto un corpo a corpo. Ho assistito a un incontro di pugilato tra loro e il Padreterno. Molto interessante.
Il concerto va avanti. Distinguo altri versi interessanti nella voce rugginosa del talentuoso Aimone Romizi, un mix tra Jim Morrison e Cristiano Godano. Dai loro testi sono sempre più attratto. Torno in convento e mi metto ad ascoltare copiosamente i due dischi comperati, È già domani e Forse non è felicità. Chissà perché, sono le canzoni che mi cercano e non il contrario.
Faccio un salto dal divano quando suono Portami con te: «E allora io ci proverò/ A credere alla religione/ A fare finta che sia un dono/ La vita che non ci appartiene/ Spero di non crederci per sperare/ Crederò di crederci se va bene/ Mi distrugge la ricerca/ Quando non dà risultati/ Conto i giorni ed i minuti/ Non si aggiungono ai tuoi anni/ Questa vita è l’algoritmo di un programma che ora è vero». Mi viene da pensare a tutti quei ragazzi che nei raduni musicali ci provano a credere in qualcosa, in Qualcuno. Dovremmo imparare ad ascoltarli e dialogare con loro.
Nel disco Forse non è la felicità c’è una perla, Capire un errore, il testo è una supplica sincera al Signore in un momento di estrema fragilità: «Io ti do lode/ O mio Signore / Per avermi fatto creatura così ignobile/ Ora l’ho detto/ Pensavo d’esser diverso/ Ma guarda quale splendore/ E il mio sorriso adesso è storto come me/ Ora l’ho detto/ Sono soltanto quel ricordo che ho di me/ Adesso con che coraggio/ Potrò riuscire a guardarti?/ Che neanche il mare vorrà bere più con me/ Questo male servirà anche a me/ Capire un errore». Mi ricorda dei versi del salmo 85 (1-3): «Tendi l’orecchio, Signore, rispondimi: mio Dio, salva il tuo servo che confida in te: abbi pietà di me, Signore; tutto il giorno a te io levo il mio grido». E c’è tanto di Divina Commedia di Dante.
In un altro brano del disco, Giovane, che pare venir fuori da un album dei Velvet Underground, arrivano parole pesanti come un macigno: «Se Giuda fosse vivo dentro me/ Potrei tradire i sogni che proteggo? Scappare via, cambiare numero/ Dimenticare tutto e darmi un senso?/ Se avessi un dio sai cosa chiederei?/ Che queste note arrivino anche ad altri/ L’eterno è un male che rifuggirai/ Se un canto non trapasserà il tuo petto». Ognuno può tirar fuori da questi versi una riflessione, in fondo è la forza nascosta di una band: stimolare un pensiero divertendo e intrattenendo.
I Fask dovranno tenere la barra dritta e senza mai cedere alle lusinghe di un facile successo. Abbiamo bisogno di artisti che fanno a pugni con il Signore, sono sicuro che ne usciremo tutti vincitori dallo scontro. Benedetto quel desiderio di vita urlato sopra e sotto un palco, in una calda notte d’estate. E dire che non volevo andarci al concerto dei Fast Animals and Slow Kids.