“Io sono la resurrezione e la luce,
non potrei mai odiarvi come vorrei”
Dalla torre del municipio di Manchester in Inghilterra lo canta il Gesù protagonista della Passione portata in scena per le vie della città e trasmetta in diretta sul terzo canale della BBC, la televisione inglese. Era il 2006. L’idea fu di attualizzare la storia di Gesù in una delle metropoli più complesse d’Europa. La narrazione televisiva è stata accompagnata dall’esecuzione dal vivo di canzoni scritte in altri contesti e per scopi non religiosi. Brani di Robbie Williams, Morrisey, Oasis, James, New Order associati a figure come Ponzio Pilato, Pietro e la Vergine Maria. Il verso ascoltato poco fa è tratto da una canzone degli Stone Roses, gruppo di Manchester, come gli altri artisti prima elencati. L’esperimento fu replicato a Natale l’anno successivo nella città di Liverpool per celebrare la nascita del Salvatore. Tentativi ben riusciti: hanno reso comprensibile il mistero di Cristo ai cosiddetti “lontani”. Gesù che nasce, soffre, muore e risorge è concreto, avvicinabile, reale.
Rappresentare la sua vita per le strade d’una città vuol dire avvicinarsi a Lui con occhi nuovi e proiettare nella tua esperienza le conseguenze dell’Incarnazione del Figlio di Dio che nasce, muore e risorge perché tu sia veramente felice. Tutti siamo in cammino, verso quale meta solo Dio lo sa. E tu giovane, per le strade della vita sperimenterai le stesse vicende di Gesù. Vivrai l’amore e conoscerai pure l’odio, la fedeltà di un caro amico e il tradimento di un nemico, la compagnia di un padre e di una madre e l’abbandono di chi non ti vorrà più. La tua, la mia e la nostra storia è un racconto splendido e sanguinoso di morte e di resurrezione.
Gesù sulla torre di un municipio svetta in alto trionfante sopra la morte. Da risorto intona il suo canto libero. Gesù è libero dopo la morte e l’umiliazione della Passione. Ha vinto la morte dopo essere stato inchiodato su una croce realizzata con gli scarti di una falegnameria che non era la bottega di suo padre, come se fosse lui lo scarto di cui sbarazzarsi e nel modo più ignobile. Sulla strada del Calvario tu lo hai incontrato, si fa carico delle tue fragilità e dei tuoi sogni. Ma cosa ci fa Gesù sulla tua strada? Cosa vuole dirti o darti al termine di questo lungo percorso iniziato a novembre? I punti interrogativi che hanno segnato gli incontri qui in seminario sono stati posti al termine di un’unica domanda: “Indovina… chi sono?”. Sei in grado di rispondere al Signore e di definire il rapporto con Lui?
Stasera è Lui stesso a darti la soluzione: “Io sono la Resurrezione e la Vita”. Che ti possa bastare questa risposta per essere contento di averlo finalmente conosciuto. Ciò nonostante, nel vangelo di Giovanni il Signore ti offre una risposta ancora più esaustiva: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Nel verso cantato in cima a quella torre, Gesù canta:
“I’m the resurrection and I’m the light”
In inglese la parola LIGHT che vuol dire LUCE suona quasi come LIFE che vuol dire VITA. Un gioco di parole udibile nella canzone e quel “NON POTREI ODIARVI COME VORREI” fa da prologo alla dichiarazione d’amore più bella che tu possa mai ascoltare: “Non ti odio perché ti amo fino a donarti la vita anche dopo la morte”. Gesù è la Via, la Verità, la Vita, la Luce del Cero Pasquale che brilla nelle notti delle nostre vite. La morte non ha più potere né su di Lu né su di te.
Questa rivelazione amorosa provoca una scelta: accoglierlo e seguirlo oppure proseguire il cammino senza di Lui. Devi scegliere. Se decidi di accoglierlo come il Risorto non potrai fare a meno di servirlo. Lui ti trasformerà, lascialo fare e cambierà il tuo lutto in gioia, ti consolerà come nessuno e ti renderà felice. Non mancheranno le prove e le afflizioni, ma Lui rimarrà al tuo fianco. Incontrare Gesù e deciderlo di fargli posto nella tua vita produce la fede, quella virtù necessaria che ti fa credere, e anche se sei morto, vivrai. Se non credi, sei morto anche se vivi. È Sant’Agostino a scriverlo mentre commenta il vangelo di Giovanni, il verso venticinquesimo del primo capitolo:
“Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me anche se è morto vivrà”.
Negli anni della tarda adolescenza e della giovinezza spesso accade d’incontrare un adulto che si rivela decisivo. Lo dice l’autore francese Daniel Pennac in uno scritto “Gli indimenticati”. Quando questo adulto appare non sembra mai un uomo come gli altri. Quella persona nuova incrocia nel cammino della vita apre una finestra sul futuro. Ricordiamo la maestra, il professore, l’educatore, il catechista, il Papa, il Vescovo, il parroco, il frate, la suora o il mentore che ci ha cambiato la vita. Riconosciamo che senza di loro non saremmo ciò che siamo. E non li abbiamo mai dimenticati. Gesù è incluso in questa lista di indimenticati? Spero di sì.
Gli indimenticati hanno qualità speciali che suscitano gratitudine. Sono speciali: in quanto professori sembrano incarnare la loro materia; in quanto preti e suore incarnano il Vangelo. In quanto Gesù, egli incarna l’amore in grado di cambiarti radicalmente. Come scrive la scrittrice americana Marilynne Robinson nel racconto “GILEAD” di trasformazioni brusche ne accadono nella vita e accadono spontaneamente e inaspettate, facendo impallidire le tue speranze e i tuoi meriti. Gesù ti sovrasta, ti spinge verso una gioia inattesa e sconosciuta.
L’esperienza con il Risorto riscrive le tue priorità, le purifica e le potenzia. Tutto appare diverso perché illuminato di una luce intensa. Si apre il sipario sul mondo e ogni cosa appare nella sua nuda verità, il velo del tempio è squarciato, la sua Presenza desta meraviglia e piacere. Tutto si rinnova. Ma può capitare di farci l’abitudine, come se la Resurrezione facesse parte del panorama consueto a cui si abitua con il passare del tempo. C’è una cosa che mi spaventa nei giovani d’oggi: l’incapacità di affrontare le prime difficoltà della vita e di abituarsi all’apatia, tanto nulla cambia e niente serve. Non serve studiare tanto non lavorerò, non vale la pena innamorarmi seriamente tanto non ho voglia di mettere su famiglia. Devo godermi la vita finché posso, ma intanto rimango in attesa, come sospeso in un presente eterno, condannato all’ergastolo. Qualche tempo fa, un ragazzo in un centro d’ascolto in una scuola superiore mi disse: «Padre, la mia vita è già finita, non ho prospettive, rimarrò disoccupato, povero e sfigato. Chi me la fa fare a impegnarmi?» Terribile. Dunque perché risorgere se il futuro promesso assomiglia al presente?
Vi si legge in fronte una rassegnazione figlia di questi tempi. Eppure siete la generazione migliore possibile, certo non priva di difetti, certamente più illuminata e talentuosa della mia generazione. Noi degli anni settanta abbiamo vissuto con i sensi di colpa per i continui rimproveri degli anziani che avevano vissuto la rivoluzione del ’68. Ma la mia generazione ha inventato i computer e sviluppato internet, ha spazzato via il fascismo e il comunismo e tutte le ideologie che mortificavano l’uomo, ha imparato a parlare in inglese creando ponti con altre culture e religioni. Voi siete oltre, siete molto di più.
Ho cinque nipoti in un’età compresa tra i 12 e i 18 anni. Mi piace osservarli per capire il vostro e il loro mondo. Quando mi chiamano da Madrid o dal Canada dove partono in vacanza con i loro amici e con pochi soldi… quando guardo i loro interessi culturali e artistici… quando ricevono centinaia e centinaia di “Like” sui loro profili social mentre io ne racimolo appena una decina; comprendo che la vostra è la generazione del sorpasso. Non lasciatevi intimorire dai grandi che rallentano la vostra corsa. Quelli non riescono a starvi dietro perché avete una marcia in più.
La vita è come una partita di calcio: va giocata nel modo migliore possibile, rischiando di perderla o di diventare quello che vi pare. Anche in caso di sconfitta Gesù ci dice: “Chi perde la vita per causa mia la troverà”. Con Lui vinciamo sempre, siamo meglio della Juventus.
Ci sono canzoni che ascolto in radio che sollecitano una ribellione, una rivoluzione, una rinascita.
Sento versi del tipo:
– “Che da te risorgo anch’io” di Levante;
– “Che il dolore serve proprio come serve la felicità e morire serve anche a rinascere” di Brunori Sas;
– “Credo in un amore che vince sempre sulle tenebre” di Giorgia.
Soprattutto impressiona il testo di una canzone di un gruppo ligure, gli EX – OTAGO.
C’è un’osservazione acuta a difesa dei giovani di cui oggi si parla malissimo: “Se i giovani di oggi valgono poco, gli anziani cosa ci hanno lasciato?” Gli fa da contro canto, nello stesso brano, un cantante simbolo delle generazioni passate, Eugenio Finardi, che gli risponde sarcastico: “Noi anziani il mondo lo abbiamo mangiato, arrotolato e poi fumato. Abbiamo rotto tutte le regole, ce lo siamo consumato. E adesso a voi lasciamo l’onore e il privilegio di assistere ad una grande estinzione di massa”.
E poi i giovani incalzano: “Lasciateci sbagliare seguendo le nostre visioni e scoprirete che abbiamo qualcosa, qualcosa da urlare”. Quanto è importante oggi avere la possibilità di sbagliare perseguendo una causa giusta, un sogno o un progetto da realizzare. Sbagliare vuol dire agire commettendo errori in base a un modello. Un giovane che sbaglia è un uomo che agisce, un temerario che prende in mano il destino e lo determina con le sue scelte a volte giuste, a volte sbagliate. Sbagli nel rapporto con i genitori, sbagli quando scegli le cattive compagnie (ammesso che tu sia più buono degli altri). Sbaglia il prete sull’altare e in parrocchia. Pazienza. Nessuno è infallibile. Sbagliando s’impara a vivere. Quando un anziano v’imporrà di accettare una realtà già definita, significa che vuole seppellire i vostri sogni.
C’è una comunità che giace nei sepolcri e sepolta in una valle, abita in una poesia di un artista LEONARDO SINISGALLI, scrittore di Montemurro (in provincia di Potenza). Nella poesia “Pasqua 1952” ci immerge nella sua campagna, quella lucana. I giovani sono i primi messaggeri del Risorto in un luogo diventato un sepolcro per le famiglie, seppelliti nelle loro case. Vita e morte si scontrano in questa valle che è culla e sepolcro. La morte si annida e invade le case.
L’evento della Pasqua e la sua forza rinnovatrice cedono il passo alla paura della morte e della distanza che essa potrebbe provocare tra i vivi e i defunti. Manca la fede nella Resurrezione e ci si rassegna a morire, nella speranza di essere ricordati dai viventi. La valle è un sepolcro di gente morta che non crede. E la tua vita? La tua casa? Il tuo quartiere? Il tuo paese? La tua città? Sono culla o sepolcro? Luoghi di rinascita o cimiteri di gente sopravvissuta che non crede nel Risorto?
Questa sera ti verrà consegnata una pietra in cui potrai incidere il nome di Battesimo o scolpire un’intenzione di rinascita o una difficoltà che rallenta la tua resurrezione. Quel sasso rappresenta la porta che chiude il tuo sepolcro, che t’impedisce di uscire dal sepolcro. Il Signore ti chiama a vivere, esci! Papa Francesco qualche anno fa, facendo visita nella parrocchia romana di San Gregorio Magno, così disse ai giovani lì presenti: “Uscite dalle zone morte del cuore, solo il potere di Gesù può aiutarci a uscire dalle tombe che tutti noi abbiamo. Ma a volte siamo molto legati a questi sepolcri e non vogliamo lasciarli. La nostra anima, allora, comincia a dare cattivo odore.”
Bisogna morire ogni giorno a noi stessi ogni giorno per fare spazio al Signore che ci rinnova continuamente. Morire un poco alla volta, per rinascere e tornare alla luce, per non rimanere impigliati tra le rocce del sepolcro mentre il Signore leva le bende di morte con cui abbiamo avvolto le nostre esistenze. Al termine di questa riflessione con un brevissimo racconto tratto da un libro “Dio mi ha creato gratis” del compianto maestro Marcello D’orta che raccoglie temi svolti in una classe elementare ad Arzano, vicino Napoli, e che trattano secondo lo sguardo dei bambini il rapporto con Dio, la chiesa, i preti e i Santi. Il tema ha per titolo “Tutti un giorno dovremo lasciare questa terra…” Il maestro ha lasciato volutamente gli errori di ortografia.
Così il bambino ha scritto:
Mio nonno è morto seduto al letto: aveva il pigiama e settantacinque anni, quando è morto. Non so se andrà in Paradiso o all’Inferno, io credo in Paradiso, perché già ha fatto la guerra, già è nato a Napoli e già lavorava con mio zio. L’unico peccato di mio nonno è che sputava sempre per la strada e non poteva tanto alleggerire (sopportare) gli africani. Mia zia, che è una chiagnazzara (una che piange e si lamenta sempre), dice che la morte è la ricompensa di una vita piena di dolori, ma noi che siamo tutti un po’ cacasotto ci fa paura lo stesso. Si può morire di subbito oppure un poco alla volta, io speriamo un poco alla volta, così mi abituo.
Quest’ultima frase sintetizza quanto ho cercato di comunicare a te oggi, caro giovane. Questa mattina, mentre celebravo la messa, ho pregato perché tu possa abituarti al sacrificio e alla fatica per accogliere la gioia, quella piena che viene dal Risorto. Ho pregato il Signore perché tu possa abituarti a rinascere ogni volta che cadrai dopo una sconfitta. Chiudo con alcuni versi di una canzone scritta da un cantante che è il mio punto di riferimento artistico, David Bowie. Che sia di buon auspicio per la tua nuova vita.
Nella sconfitta osservo le stelle nella notte
La luce della mia vita è bruciata
Non ci sarà domani
Poi sospiro nel sonno
E ritrovo significato col tornare del giorno
Catechesi ai giovani della diocesi di Cosenza, 9 maggio 2017