In «Stranger than kindness» Nick Cave racconta il suo processo creativo.
«Non c’erano ragazzi, non c’erano ragazze. Solo i protoni impazziti di un unico atomo elettrizzato. Ginger strinse gli occhi e la luce che usciva dallo stereo la fece pensare a un quasar, a Dio che creava la vita dal nulla. Pensò allo spirito di Dio che si librava sulla superficie dell’acqua e vide un melograno frantumato, dei fichi gonfi e aperti, il miele che colava fuori da ogni cosa». È una pagina del romanzo Salvami (Meridiano Zero, 2005) della scrittrice americana Darcey Steinke in cui si svolgono storie di abbandoni e di redenzione, con protagonisti adolescenti appassionati di musica heavy metal.
Assomiglia a Flannery O’Connor, al suo modo di raccontare un’umanità schizoide attraversata da Dio, motivo per cui la scrittrice è stata scelta da Nick Cave per risolvere la sua religiosità nel libro Stranger Than Kindness (Milano, ilSaggiatore, 2020, pagine 276, euro 38), un’autobiografia tratteggiata con cimeli e oggetti personali a lui appartenuti. Sono gli altri a dirci chi siamo veramente e Steinke in un saggio di tredici pagine è riuscita nell’impresa, definendo quell’energia primitiva di Cave che esplode nella relazione con Dio e che sfocia nel rapporto consolatorio con Gesù. Il confronto serrato con il Padre e la protezione nel Figlio tratteggiano la scrittura di Nick Cave, per buona pace di quanti si ostinano a interpretarlo ignorando le relazioni divine e ciò che ne consegue, il Bing Bang della sua creatività. Il lettore è invitato alla visione (più che alla lettura) del volume da una breve introduzione dello stesso cantante australiano: «Ciò che vedrete in questo libro vive nel mondo caotico che si forma intorno alle canzoni e nel quale le canzoni albergano. Sono i materiali che nutrono e danno alla luce l’opera ufficiale». E poi continua: «Per opera ufficiale intendo la canzone, il libro o lo spartito che raggiunge le mani dei fan. I fan ne diventano i custodi. La possiedono. Eppure, dietro la canzone c’è una quantità enorme di oggetti secondari — disegni, mappe, liste, scarabocchi, fotografie, dipinti, collage, schizzi e bozzetti — che è proprietà segreta e amorfa dell’artista».
Il saggio sulla religiosità di Nick Cave, God is in the house, prende il titolo da una canzone tratta dall’album No More Shall We Part. In quel brano una teofania è attesa in un mondo di morte, di deboli e di viziosi. Cave come un pastore urla l’urgenza di Dio alla maniera dei vecchi predicatori pentecostali. Al centro della sua discografia c’è la Bibbia, il peccato, la redenzione in Cristo e l’eternità. Il saggio prova a dare delle risposte alle tante domande degli appassionati: come nascono le canzoni di Nick Cave? Perché si mostra ossessionato dall’Antico Testamento? Chi è il Gesù di Nick Cave?
L’autrice accosta Nick Cave a William Blake e John Keats, lo interpreta citando la teologia di san Tommaso d’Aquino e la filosofia di Simon Weil. Paralleli che s’incrociano con l’inquietudine di Elvis Presley, il re del rock’n’roll che ha influenzato la ricerca di senso in Cave, lo canta nella canzone Spinnig Song dell’album Ghosteen. Il massimo riferimento è lo scrittore William Faulkner cui Nick Cave ha ereditato l’originale prospettiva religiosa. «La prerogativa dei personaggi di Faulkner e di Cave è il paradosso, un paradosso pieno di dubbi, brama, domande, frustazione», scrive Steinke nella seconda pagina del saggio. «La prospettiva religiosa paradossale di Faulkner conferiva a bordelli e prigioni la dignità del chiostro. E Cave si mobilitò per una definizione più ampia di umanità, che sappia incorporare nel concetto dell’umano le cadute, l’incompletezza, un certo deterioramento e impoverimento dell’anima».
L’autrice asserisce che le persone migliori sono tutte un po’ guaste e chi ascolta le canzoni di Cave può ricevere il dono divino della grazia redentrice. E non importa se il tramite e i protagonisti delle canzoni sono macchiati da colpe mortali e di conseguenza condannati alla dannazione, esiliati nel loro inferno. Le canzoni conquistano i destinatari, veicolando la buona notizia. E più guasti si è, meglio è, come i personaggi sinistri delle sue canzoni e cioè l’assassino sulla sedia elettrica di The Mercy Seat, il cliente di prostitute di Jubilee Street, uno che ha sterminato forse la sua famiglia in Song of Joy. Vite crude e sanguinolente da redimere, visitate dalla grazia perché immorali e criminali.
Le immagini contenute nel libro mostrano un reliquiario composto da bozze di testi scritti con il sangue, elenchi di parole che affascinavano Cave da ragazzo mentre leggeva romanzi, fotografie. Una statuina di Gesù flagellato alla colonna e tenuta vicina al letto come forma di protezione, un busto del Sacro Cuore di Gesù comprato al mercato delle pulci di Buenos Aires in Argentina durante un tour e portato sottobraccio fino in Europa. Struggente la descrizione della scultura: «Con la sua assoluta solitudine, con il fardello della sua morte, la sua insofferenza per tutto ciò che è mondano, il suo dolore, Cristo mi parlava». Comprò una versione integrale delle Vite dei Padri della Chiesa, Martiri e altri Santi principali del sacerdote scrittore Alban Butler. Rimase affascinato dalla figura di san Giuda Taddeo, il santo patrono dei casi disperati, da lui definito il «papà del blues» per quel potere taumaturgico riconosciuto al blues e alla fede.
Un soggetto domina sulle immagini religiose presenti nel volume Stranger Than Kindness, la Beata Vergine Maria. Lascia senza fiato la considerazione della Madonna con in braccio Gesù Bambino e Maria che regge il Cristo morto. Così dichiara: «Per me, l’immagine della madre con il bambino e della madre in lutto sono l’inizio e la fine della Storia, il concepimento del mondo e la sua distruzione definitiva. È la storia del mondo». Nel libro, come nei dischi, non c’è una professione di fede di Nick Cave. Consegna un’esperienza creativa che coinvolge la carne e lo spirito, demolendo quell’idea sbagliata di un Dio piuttosto ridimensionato dalle nostre aspettative, incasellato in formule e riti svuotati di senso. Il Signore si manifesta nei modi più imprevedibili e Nick Cave mostra i segni di questa visitazione, già tracciati nelle sue canzoni. Il saggio spiega il Gesù di Cave, «un Gesù non moralista ma che incoraggia una fede legata a un Dio che non apprezza l’autocompiacimento né la stabilità, che è in perenne movimento, che ci spinge a intraprendere un viaggio pieno di rotture e fatto di infinita trasformazione». Spiega il processo della conversione necessaria per conoscere Dio e sé stessi, la disponibilità al cambiamento e ad accogliere il nuovo che verrà, trascendendosi. Il paragone con la forma canzone è un colpo di genio perché «anch’essa è un movimento, un divenire, una fetta di eternità conficcata nel tempo normale per dilatare ed esplodere la nostra fissità».
L’indagine di Dio è così spiegata dallo stesso artista: «Ho sempre trovato tanta energia e stimoli nell’idea che la cosa che vivo bramando, chiamandolo Dio, con tutta probabilità non esiste (…). Le mie canzoni sono conversazioni con il divino che, in fin dei conti, potrebbero rivelarsi soltanto gli sproloqui di un pazzo che parla da solo». Nel sospetto di un ateismo non confessato, in Stranger Than Kindness abbiamo la certezza che Cristo è entrato in Cave in modo permanente. Come dichiara Leonard Cohen, la figura di Gesù si erge inchiodata negli uomini che lo hanno accolto, così come per Nick Cave che comprende la sua sofferenza canzone dopo canzone, dissolvendosi nel Crocifisso e nel dolore altrui ospitato e cantato nei suoi versi, distinguibile nei suoi cimeli, in santini e statuine rinvenuti nei mercatini dell’usato, posti improbabili per incontrare Dio ma scelti dal Signore per manifestare il suo volto.