Verso i dieci-dodici anni ero una tremenda testa di cazzo, un ribelle davvero e quindi finiva anche a taccate sulla zucca; mia madre mi picchiava con i tacchi in testa, si difendeva bene, Un’affermazione contenuta nella biografia “Non per un dio ma nemmeno per gioco – Vita di Fabrizio De André” di Luigi Viva (Feltrinelli), nel capitolo riguardante il rapporto conflittuale del cantautore genovese con i genitori. A pagina 35 del libro è descritto uno scontro durissimo con la madre che si ferì seriamente mentre cercava di picchiare il figlio scavezzacollo. Il giovane Fabrizio fu poi preso a cinghiate dal padre Giuseppe, che non contento bruciò gli album di figurine e i suoi effetti personali più cari. Al Sud si dice che per avere figli educati occorrono pane e bastonate, conosciamo il proverbio “Mazze e panelle fann’ ‘e figlie belle, panelle senza mazze fann’ ‘e figlie pazze”. La saggezza popolare purtroppo è annientata dal nichilismo imperante che genera caos sociale. Figli senza padri né madri e dunque senza regole comportamentali da seguire né valori da rispettare, orfani capaci di gesti crudeli e ingiustificabili.
Prendere ad esempio una testa calda come De André per trattare le contraddizioni delle nuove generazioni è lo stratagemma utilizzato da un vescovo vivace, Mons. Francesco Savino, firmatario d’una lettera indirizzata ai giovani della diocesi calabrese di Cassano allo Ionio. Nel messaggio esplicita la parola “cazzo”. Tutto vero, per la prima volta un Vescovo lo scrive in un documento ufficiale. Il vocabolo è incluso nel brano musicale L’infinita di un tale che si fa chiamare Arteiu, testo scelto dal Vescovo per dire ai suoi giovani “Io ci sono, sono qui per aiutarvi a sognare cose più grandi e nobili”.
Perché De André e un testo adolescenziale così provocatorio in una lettera pastorale? Uno scritto così ardito nasce dopo un fatto doloroso accaduto nella città di Castrovillari, provincia di Cosenza. Una baby gang infastidiva da tempo un povero disabile. Una mattina d’agosto lo hanno quasi ucciso, colpendolo con gavettoni d’acqua e incendiando la sua abitazione. Denunciato l’accaduto presso la caserma dei Carabinieri, tre giovani sono stati arrestati e due minori collocati in una comunità rieducativa dai giudici del tribunale di Castrovillari. L’episodio ha sconvolto una città non abituata a fatti così cruenti contro persone deboli e indifese.
Don Francesco, guai a chiamarlo Eccellenza (s’infastidisce), pare conosca a menadito l’opera completa di Fabrizio De André. Nel suo messaggio sceglie una canzone tra le meno conosciute, S’I’ Fosse Foco, inclusa nell’album del 1967 “Volume III”. S’i’ fosse foco è un sonetto di Cecco Angiolieri. Nessuno sa perché De André scelse di musicare il sonetto del poeta e scrittore senese Angiolieri. C’è chi ci vede un attacco alla Chiesa mondanizzata, alle convenzioni sociali del tempo e al potere costituito, altri la volontà di dissacrare tutto e tutti.
Il Vescovo lo utilizza per demitizzare i beniamini di oggi, per intenderci quelli della trap e della musica neomelodica napoletana. E lo fa screditandoli, canzonandoli a dovere. Scrive ai suoi figli con la naturalezza di un padre, con quella parresia che nel Nuovo Testamento indica la libertà e il coraggio di dire Cristo. Apre la lettera guardando in faccia i suoi giovani: “Cecco Angiolieri, che forse anche a scuola è stato dimenticato, ha anticipato nel ‘300, i contenuti rap, trap, pop, neomelodici che tanto oggi vi attraggono, nella protesta per non avere quello che si vuole, cercando nella distruzione o nel piacere superficiale la risposta. Non è un po’ così anche per voi?”
L’annuncio della Verità spesso trova gente priva di comprendonio, zucconi senza un Bene da seguire, occorre dunque essere franchi nel parlare. Non si era mai visto un Vescovo sfidare i giovani su un campo minato come quello della musica.
I preti e i religiosi maneggiano la musica per adulare le nuove generazioni e combinano disastri. Suore cantanti e frati ballerini usano le canzoni per aprirsi un varco nel mondo chiuso dei giovanissimi, tentativi genuini ma spesso fallimentari e goffi. Monsignore Savino preferisce prendere a schiaffi la trap, dileggia la musica neomelodica, non teme di usare il termine “cazzo” citando una canzone di molti anni fa di un rapper bresciano di cui gli adulti in evidente stato di decomposizione ne ignorano l’esistenza. Un cortocircuito culturale potente e temerario, uno shock che dovrebbe scuotere dal torpore gli operatori pastorali, i parroci, gli insegnanti di religione, i volontari laici e cattolici coinvolti nell’educazione dei ragazzi.
Don Francesco vuole evitare il crollo emotivo, psicologico e spirituale di una generazione fragile votata al niente: “Quand’anche la faceste franca dalla legge, quand’anche vi sentiste vittoriosi perché avete fatto fessi “gli sbirri”, e i genitori, e i preti, e i professori, ecc. ecc. ecc., cosa rimane al giudizio della vostra intelligenza quando questa fuori dai fumi dell’alcol e della droga, vi guarderà lucida e spietata? Ve lo dico io: il vostro niente vi travolgerà e non avrete nemmeno l’umiltà di chiedere aiuto.”. Un pugno dritto in faccia. La lettera s’intitola “Why?” un anglicismo che farà torcere il naso ai puristi della lingua italiana. Citando Angiolieri contemporaneo di Dante, poteva usare l’avverbio “perché” in una proposizione interrogativa diretta. Lo scritto non serve al pastore per sciorinare abilità linguistiche già note perché oratore fine e prolisso; non scrive con il linguaggio del mondo ecclesiastico pieno di termini di difficile comprensione, si rivolge intrepido ai cazzoni del branco per chiedere la causa di quel crimine.
Non è più il tempo di contrapposizioni tra adulti e giovani, tra adolescenti e anziani, ciò traspare dalla lettera pastorale. Nessuno è migliore di nessuno, ma i giovani devono darsi da fare perché sono in pericolo. Un dovere impegnarsi per avere un’esistenza bella, seguendo adulti e anziani dalla vita esemplare, e in questo i cattolici possono cogliere l’occasione per offrire una buona testimonianza e supplire alle famiglie sempre più in crisi. Scrive ancora il Vescovo don Francesco Savino: “Io vorrei essere, insieme con quanti vi vogliono bene, quella mano che vi tira fuori dal nulla, che vi attira per ancor più abbracciarvi e darvi un’occasione di stima vera. Chi vi incita a sentirvi padroni della vita, non vi ama, perché nel momento i cui voi stessi diventaste perdenti, sareste considerati quel niente da eliminare. Date, offrite la vostra giovinezza per costruire quel mondo che vi dicono essere finito.”
I giovani dovranno abbandonare falsi ideali e l’incuranza delle conseguenze delle loro azioni, migliorando la realtà e sé stessi con il sacrificio e il duro lavoro. Che accolgano finalmente la vita nelle sue infinite possibilità perché nessuno deve commettere la stessa stupidaggine due volte, così scriveva il filosofo francese Jean Paul Sartre. Un vescovo ci sta provando e oggi si rivolge alla sua Chiesa perché sia prodiga verso quei figli degeneri.
Consapevoli di non poter amare tutti e salvare tutto, sappiamo che la fede si accompagna alle piccole e grandi opere di carità di cui siamo capaci, lo insegna San Giacomo nel Secondo Testamento: “La fede se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.” Dopo questa lettera e il Vangelo che ci inchioda alle nostre responsabilità di credenti, non abbiamo più scuse.
Diamoci da fare.